Corso di scrittura creativa “Racconti di viaggio” – 30 nov 11/1 febbr 2012
A Valvasone (22 gennaio 2012)
Lo scrittore Emilio Rigatti autore di molti libri di viaggio
Mauro Daltin, relatore e presidente di Bottega Errante
Lorenza Stroppa
I RACCONTI che ho scritto ( come “compiti”)
Maharaja fecero dipingere di rosa in segno di ospitalità.
dall’urgente colpo di tosse mentre la nebbiolina s’infittisce e le fisionomie
umane si incollano fra loro e a me. Lingue forestiere a cantilena velocissima
bombardano le orecchie per vendere penne e cartoline. Con un po’ di timore
guardo meglio quei giovani maschi che si confondono con mamme bambine e neonati
semi nascosti dai sari.
un “Che begli occhi”.
rimangono solo loro: due, straordinari, occhi verdi.
luminosi e sereni, con un sottofondo di dialogo le cui parole sono il battito
di ciglia ed il tremolio impercettibile dell’iride.
sulla narice sinistra, i capelli neri orfani di pettine, con riga indefinita
sulla testa.
assomiglia in tutto. Ma la tiene indietro, quasi a proteggerla da sguardi
indiscreti.
mi dona un sorriso di denti bianchissimi, diradati a tratti, concedendosi alla
fotografia.
alcune rupie.
pelle. E’ piccola, affusolata, ambrata e sporca. Le unghie contornate da un
sottile profilo nero. Ma il tocco è dolce e lei mi fissa dalla testa ai piedi
con intensità decisa e supplichevole.
bracciali c’è sicuramente qualcuno pronto a rubarglielo o a picchiarla. Ma con
me ho solo la macchina fotografica e glielo spiego come posso, in un miscuglio
di gesti e parole. Lei abbassa lo sguardo, rassegnata e delusa. Un brivido
ghiacciato dallo stomaco ai piedi va di pari passo con il rosario di pensieri,
ormai padroni della mia razionalità.
sorridere, con la mano tesa e mille discorsi ingabbiati nell’iride dei suoi
occhi verdi.
luccicanti. Apre la bocca disegnando un “Oooh” di meraviglia, inarcando le
sopracciglia perfette.
voce familiare che mi dice “Sei l’ultima, vieni”.
salgo sul pulmino arancione già in moto che parte mentre la porta è ancora
aperta.
quella ragazza, la “Mia” ragazza dagli occhi verdi.
luccicanti che non sono riuscita a regalarle.
DIVERSO
CARTOLINE IN VIAGGIO
caffè” . “No, l’ho già acceso. Stai a
letto ancora un po’. E’ presto”. Un lieve bacio e la porta d’ingresso
sbatte. L’ auto in moto e il portone automatico si chiude.
la casa bianca dalle saracinesche rosse che si confonde con il buio.
Nemmeno uno spicchio di luna in cielo. Sulla strada le auto ancora non
passano. Sono le cinque.
dell’abatjour modello retrò rende ancora
più pallido il viso di Luisa e più
evidenti le lentiggini. Indecisa se svegliarsi o no, posa sguardi
vagabondi sui quadri di fronte al letto.
Visi ad acquerello e paesaggi in
cornici dorate le piacciono sempre. Sono stati dipinti da sua figlia, quando
era bambina.
letto rosa, nella sua camera rosa. Montagne di libri ovunque e orecchini
infilati nel portagioie a forma di cuore. E i vestiti di ieri buttati sulla
poltroncina bianca.
fuori fino a sera. Luisa, respira con un
lungo “Ahhh”che le solleva lo stomaco,
la li- ber- tà, quella di decidere cosa fare in una mattina da sola. Ma
è venerdì, quindi alle otto deve essere
a scuola.
giorni è Natale”. Il pensiero improvviso la sveglia del tutto. Stropiccia gli occhi e si appoggia allo schienale del letto. Sono le sei.
mezzo del comodino bianco, dove
tiene carte da lettera, foto buttate a caso e cartoline.
prime ad apparire sono quelle che
l’anno scorso non era riuscita a scrivere. E più sotto, quelle ricevute, in un pacchetto chiuso da elastico. Con
paesaggi innevati e brillantini, e frasi
di persone dimenticate o che non ci sono più o che non hanno il
computer. Carte piegate in buste rosse,
gialle e bianche, le passano tra le
mani. Luisa legge di ognuna il mittente e gli auguri di buon Natale e felice anno nuovo scritti in
grande e con affetto.
prima penna che trova sul comodino,
quella viola panciuta. Con lei
decolla per un urgente viaggio a braccetto con i ricordi, per il tempo
necessario a far fiorire auguri. Sui cartoncini
bianchi, come per magia, Luisa vede
sbocciare visi e gesti che si lasciano cullare in un lento battito
di ciglia.
caffè” . “No, l’ho già acceso. Stai a
letto ancora un po’. E’ presto”. Un lieve bacio e una porta sbatte. L’ auto
in moto e il portone automatico
si chiude.
Dalle fessure delle saracinesche rosse
vedo solo buio. Nemmeno uno spicchio di luna in cielo. Silenzio.
letto di ferro battuto rosa, nella mia camera rosa, respiro la li-ber-tà. Quella di decidere cosa fare in
una mattina da sola.
Accendo l’abatjour. “No, non posso certo dormire. Per prendermi in tempo
potrei cominciare a scrivere le
cartoline. Sì, lo faccio subito”. Apro il cassetto di mezzo del comodino dove
tengo carte da lettera, foto e cartoline.
apparirmi sono quelle che l’anno scorso
non ero riuscita a scrivere. E più sotto quelle ricevute, che mi piace tenere
in un pacchetto chiuso da elastico. Hanno i paesaggi innevati ei brillantini.
Mi passano tra le mani in
buste rosse, gialle e bianche con
indirizzo e mittente. Grafie di persone
dimenticate o che non ci sono più mi fanno gli auguri di buon Natale e felice
anno nuovo. “E’ proprio bello ricevere
le cartoline. Sapere che qualcuno le ha comprate, scritte e spedite pensando a
me” penso.
la prima che trovo sul comodino, comincio a scrivere. “10 dicembre 2011” e un razzo di parole fa
fiorire auguri. Sui cartoncini bianchi, con brillantini e
babbi Natale, vedo sbocciare visi e
gesti che si lasciano cullare in un
lento battito di ciglia.
andare a scuola.
della penna viola
mi ha spremuto sul suo diario. Buttata
di traverso sul comodino, tra salviette, libri e creme, ho riposato pochissimo.
Come se non bastasse, “Ti accendo il
caffè”. “L’ho già acceso. Stai a letto
ancora un po’. E’ presto”, mi ha svegliato di soprassalto.
portone automatico chiudersi.
nella stanza rosa mi ha terrorizzato. Conosco molto bene Luisa. So che quando rimane sola, di mattina o di
sera, nel letto caldo, lei scrive. E
sceglie me. Perché sono la sua penna preferita. Perché ho la punta affilata e
ho la pancia al punto giusto.
sbatte contro un paio di orecchini verdi mentre traffica sul comodino bianco,
diretta al cassetto di mezzo. “Oh no! Se prende le carte da lettera sono
fritta. Lì ci sono le cartoline che l’anno scorso non era riuscita a scrivere.
E quelle coi paesaggi innevati e brillantini che tiene di ricordo.”
prendere in mano carte piegate, buste
rosse, gialle e bianche con indirizzi e mittente.
e sorride.
caldi mi avvolgono e mi puntano decisi su piccoli cartoncini bianchi.
essere molto importanti per lei.
CAPPELLO
bollente mi rincorreva ovunque, anche tra le viuzze più appartate.
centro antico di Sarajevo, tra le scarne tende dei negozietti, l’ombra era un
miraggio. E io, che non avevo mai indossato un cappello, accarezzavo quell’idea
come geranio assetato.
disperata ricerca di un cappello era contrastata dalla certezza che mi avrebbe reso
ridicola.
mentre infilavo occhi e gambe negli angusti
bazar colmi di ogni stramberia, la mia testa reclamava un riparo. Trovava
invece tappeti polverosi, zuccheriere smaltate, penne a forma di bossolo di
bomba, portacenere in onice. Difficile perfino respirare in quell’aria secca.
conduceva ad una moschea.
piazzale, un formicaio umano si alzava, si abbassava, si stendeva, al ritmo di
litanie scandite dagli stessi, infiniti versi. A sinistra le donne, a destra gli uomini.
alla fontana centrale una fila ordinata di scarpe, ciabatte e sandali di ogni
misura, attendeva non so cosa. Un po’
come me, ipnotizzata dalle movenze assurde dei fedeli in preghiera.
signora” sentii chiamare.
girai verso la voce femminile dall’accento straniero e dalla o stretta.
un sorriso a mezzaluna sotto due piccoli occhi azzurri che guardavano proprio
me.
sessant’anni sembrava di celluloide. Era dolce mentre mi salutava con un inchino
appena accennato.
rossetto color pomodoro maturo stonava
con il vestito lungo, rosa, dalla scollatura a barchetta.
mi chiese. “Sì” risposi. “Di dove?” “Di Venezia”. “ Io lavorato tanti anni a Milano come guida
e…”.
scorrette ma non ne seguivo il senso. Di
lei mi interessava soltanto il cappello bianco che portava sulla testa. A falde
larghe e traforato, rifletteva le geometrie su tutto il candido collo.
stava bene. La faceva sembrare una Barbie attempata.
accompagnava i gruppi serbi in Italia.
lavoro in Serbia. Quelle guide giovani hanno studi. Io no. Io vecchia”.
ascoltavo più attentamente ora. “Mi dispiace” le dissi.
lei turco? Bene caffè normale?” “Grazie, magari dopo” le risposi, camminando
più veloce per stare al passo con la mia guida ed il gruppo. Lei mi
seguiva, come un simpatico segugio.
a scaricarla!”
poter fare io per Lei?” mi chiese dopo un monologo di mezz’ora.
posso trovare un cappello come il suo?” le chiesi.
c’è. Però io regala lei, bella signora
italiana”. “No, si figuri. No, grazie”.
il cappello aveva già cambiato testa. In
un attimo era sulla mia.
Falce di luna il sorriso della signora.
prego” continuava a dirmi.
almeno pagarla” le dissi, una volta ritrovata la voce.
per favore?”
accorata, richiesta iniziava ad indietreggiare con prudenza.
braccio destro alzato, le dita della mano aperte, mi salutava.
cappello sembrava più anziana, con una leggera gobba.
capelli biondo stoppa le cadevano sulle
spalle, senza corpo.
esile figura, dignitosa ed elegante, spariva tra la folla di un’altra
moschea di Sarajevo.
bel cappello. Dove l’hai comprato?” mi stava chiedendo una signora del mio
gruppo.
che cappello è una lezione di quanto possa essere nobile la miseria” spiegai.
una donna qualche tempo fa.
intatta, viene dritta da vent’anni prima, una distanza che addosso a lei sembra
il tempo di una corsa in tram.
vuole sapere se combaciano due pezzi di tempo. Tira fuori le mie lettere.
prima volta. Sì, quando le scrivo non rileggo, chiudo e spedisco, adesso come
allora.
stagionata sento la mia faccia di prima, prima di cambiare il mondo, e la sento
di pasta ancora buona a tutto”.
****
PORTA
grafia su quelle carte piegate, coi fiori e
visi di dama col cappello.
pila ordinata. La cura con cui sono state conservate merita un complimento. L’
odore di erba secca mi pizzica il naso. Starnutisco,
vergognandomi un po’.
con la bocca a mezz’aria “ la mia poetessa di Firenze. Sei proprio tu?”
ingrigiti sembrano voler scappare dal co-con, chiuso da una retina rossa.
delle tue lettere” mi dice con voce
roca. Da fumatrice accanita.
e sono venuta a chiederti di rileggerle. Se le metti insieme ti esce un libro”.
in casa.
plissettata, quasi trasparente e lunga fino al polpaccio, avanza prima di lei.
asse di plastica del dondolo. L’ombra del fico mi ripara dal solleone. Flora si accuccia su un basso tronco
sbilenco. Tiene in mano una scatola di latta bordeaux socchiusa e riflette il sole che sbircia tra
le foglie.
osserva troppo.
scrivendo mentalmente di me. Come quando inventavamo rime sulla spiaggia di
Rivabella, in cerchio, sotto l’ombrellone con i nostri amici poeti.
E Loretta? E Gabriella?” le chiedo.
morta. Due anni fa. Cirano di Bergerac è rimasto solo. Lo chiamavi così, ti
ricordi? Gabriella è attrice di teatro e la seguo sempre negli spettacoli. Mi
fa ridere. E’ molto ingrassata sai?”
Loretta si fonde con il viso nobile di
Flora e il seno taglia quinta di Gabriella. Eravamo insieme in una foto alla serata
di poesia nel castello di Rivabella. Con
tanto di pubblico, applausi e buffet.
vacanza.
di scriverle.
apro le tue lettere” mi diceva.
suo indirizzo, come quello di Flora. E ora
Loretta è morta.
filigrana tradisce un’urgenza che
cavalca verso di me.
mi chiede con gentile fermezza.
danzano sui fogli ingialliti.
Come figurante a Venezia.
mi dice sfiorando il co-con, chiuso da
una retina rossa.
ASFALTO NUDO
trasparente. Il cucchiaino sembra un
senatore sulla poltrona o un naufrago sulla Costa Concordia. Seduta al
tavolino, davanti al finestrone, guardo fuori,
su Via Friuli. La Via dove vivo
nella mia casa delle Fate. Prorompente
di case anni 60, vuote di abitanti.
adesso, si anima come gabbiani sull’orlo della burrasca. La fitta nebbia
avvolge ogni cosa e pettina l’asfalto, lisciandolo di brillantina. In un quadro grigio fumo di Londra auto a
passo d’uomo avanzano incolonnate. Sono quelle delle mamme, nonne, baby sitter
che accompagnano i bambini alla scuola primaria. Li
scaricano e li affidano ai vigili e ai volontari. In un cortometraggio lungo dieci minuti. Poi, Via Friuli sospira prima
di appisolarsi, fino alle quattro del
pomeriggio, quando la scena si ripete. Questa strada, fino all’anno scorso, era
la più bella di Codroipo.
regalandole giochi di luce in continuo divenire. Ombrelloni in estate. Ritagli d’arcobaleno in
autunno. Sentinelle mute in
inverno. In primavera annunciavano la
rinascita con gemme in libera cascata.
estirpati, cancellati.
scarponi stranieri e scosse elettriche. Tonfi, squarci, tubi per una paziente
d’asfalto da abbellire. Da offrire al
sole in picchiata libera. Chiusa al passaggio. La luce a macchie di leopardo
dei tigli messa in cornice digitale.
avvallamenti, generosa di sottopiedi confortevoli e resistenti alla scure del
sole. Pur orfana di verde mi piace
sempre , ancor più quando il cielo piange o è malinconico, come oggi.
abbandonata per amore a 21 e quando ci sono ritornata, a 56. Per comodità,
innamorata persa di una casa stile americano, a un piano, con saracinesche
rosse. Comprata in due giorni, facendo lo sgambetto a una lunga fila di
acquirenti. Ha la mia età questa ragazza di muro dalle giunture arrugginite. Mi
perdo dentro i sussurri degli alti soffitti, delle lievi crepe parlanti e dei pavimenti di legno
musicante. Ha il giardino davanti e il bosco dietro che non si vede dalla
strada. Sotto gli alberi ancor giovani ho messo tronchi per sedermi e guardare
i coriandoli gialli che scappano dal cielo per scaldare la mia pelle.
Dalla cucina posso guardare il bosco
dietro e Via Friuli davanti. Posso scegliere se starmene in pace o sbirciare il
panorama umano.
****
il tempo battendo il marciapiede a ritmo militare. Un’auto rossa indossa fari
severi per diradare la nebbia.
mia finestra dormono ancora. Quella di fronte è chiusa a chiave. La sua padrona ha cento
anni e sta in casa di riposo. I muri marroni, a tratti scrostati, urlano il
dolore dell’abbandono. Quella a fianco, di un marrone tenue, è curata e amata
da Paolo e Hana, una moldava che sta lottando contro il cancro al seno. La casa che vedo meglio ha una palma che le
fa da guardia. La abita una signora rimasta vedova da poco. Proprio attaccato
c’è il centro per disabili. Moderno, ha il tetto a triangolo e grandi bocche di
vetro. Quasi un colpo di frusta il cemento, così grigio e monotono da far
rabbrividire la pancia.
sottili e slanciate, di vaga ispirazione palladiana. Sa di vita con due giovani
sposi e due bambini piccoli in un viavai continuo di bici, camioncini, nonne e
baby sitter.
guardia romana sull’attenti. E’ il tetto e riparo di tre persone che portano il
mio cognome. Due fratelli e una cognata
dall’esistenza fioca come una lampada in obitorio. Ricurvi su malanni reali o
immaginari, scandiscono il calendario
sugli appuntamenti in ospedale o sulle immondizie da metter fuori dal
cancello. Lunedì carta. Martedì umido e
secco. Preparando il bidone tre giorni prima, giusto per prendersi in tempo. E
la bolletta della luce davanti alla bottiglia di vino rosso, sempre a metà. Con
il tappo di sughero plastificato che entra
a fatica.
scarpe sulla schiena.
circo delle mie idee. Sempre svegli e, ancor più, nel riverbero grigio perla di
un cielo che vomita nebbia in soffice bambagia.
PESCATORE DI TAMBURI
gambe divaricate sulla barca, ammirava la notte di Goa. I flutti suonavano
l’arpa nel Mare Arabico, brizzolato e calmo.
si sentiva il re di quel mare che diventava il suo letto
ogni notte. La luna quasi piena sembrava una medaglia sul petto di un generale.
Con gesti sapienti, buttava le reti e le vedeva sparire nel brodo nerastro.
Poi, si preparava alla paziente attesa della pesca. Con muscoli vigili e
coraggiosi.
famiglia di Tariq era al sicuro. Sua moglie Parvati, con i cinque figli, già
dormiva nella casupola quadrata, fatta di pali di cocco, fronde di palma e
tetto di bambù. Tutto ciò che passava
tra le mani di Parvati era curato e pulito.
lui sapeva che lo avrebbe accolto con un abbraccio l’indomani mattina. Sia che
fosse tornato con le reti colme di pesci oppure vuote.
di essere molto amato le pieghe profonde
del suo viso si distesero.
pioggerellina fuori stagione ricamava una coltre d’aria umida.
spiaggia di Matusa sonnecchiava.
cambiava spesso tratto di mare per pescare ma quella notte aveva scelto Matusa
perché era poco distante dalla sua baracca.
Gli piaceva guardarlo anche di
giorno, seduto sulle dune, all’ombra delle camicie in fila ad asciugare.
notte i pesci si negavano.
silenzio potente e le reti immobili trasformavano i profondi solchi della faccia di Tariq in una tavolozza
funebre. I muscoli vibravano.
fondo del mare rumori sinistri anticipavano il dondolio sempre più forte della
barca. Tariq si alzò di scatto, allargando le gambe. Voci lontane, in hindi e marachi, lasciavano
un’eco che non riusciva a comprendere.
La paura gli pugnalava il petto.
occhi erano fessure feline nell’oscurità.
Un’onda più decisa delle altre lo fece traballare. Un lampo e Tariq fu in balia di onde
imbizzarrite. Una scossa di ferraglia e l’acqua gelida gli penetrava le
ossa. La ricchezza di una vita, la sua
barca, era diventata una carcassa alla deriva. I pezzi di legno costole di un
animale preistorico.
pochi pesci duellavano nelle reti d’argento, boccheggiando libertà. La benzina
bruciata evaporava coprendo Tariq in estrema lotta con le onde ubriache.
ferraglia rossastra aveva masticato la
sua barca di legno, urtandola con violenza.
Con le ultime forze delle braccia, Tariq nuotò respirando e tossendo
anelli di fumo. Fino a toccare la sabbia umida. La lunga canottiera, fradicia e
logora, si era posata sul corpo steso. Le ciglia abbassate sembravano mani in preghiera.
buio era lo stesso della notte in cui Tariq stava tornando allo slum di Bombay
con il giovane padre. Latrati furiosi annunciavano l’arrivo di branchi di cani che spesso
facevano a pezzi uomini, animali e bambini.
di armarsi di un lungo bastone suo padre
lo aveva sollevato sulle spalle. Nel viottolo
scuro, tra il fetore di carne
rancida e occhi gialli a falce, erano
bloccati. Il padre di Tariq aveva
arrotolato la camicia e poi lanciata, il più lontano possibile, facendo
scattare i cani che si azzannavano nella frenesia di farla a pezzi.
gridò abbassandosi “corri Tariq, scappa. Vai allo slum”. E Tariq, terrorizzato,
corse fino alla capanna di stracci e
plastica. Nelle orecchie l’eco
dell’urlo di suo padre e il latrare sempre più feroce dei cani. Sulle mani e sul corpo i fiocchi, radi e
grigi, di una neve mai vista. Tariq chiuse la porta di carta velina e cadde tra
le braccia della madre sotto gli occhioni sorpresi dei fratelli.
la neve coprì lo slum quella notte.
Gelida come la morte, sferzava le fessure delle esili pareti e spegneva la stufa a kerosene. Gelida come l’addio che, da lì a poco, Tariq
dovette dare alla città di baracche, a ciò che rimaneva della sua famiglia e
alla sua infanzia. Sulle agili gambe,
l’unica camicia addosso e poche rupie nel pugno, sfidava il domani che lo
aspettava altrove.
era bravo a saltare, a fare piroette da circo, a suonare gli strumenti che suo
padre gli costruiva come giocattoli. Per
questo si accodò a un gruppo di venditori di tamburi e da loro imparò a
stringerli sotto le ascelle e a scatenarli
in concerti improvvisati. Sui marciapiedi, nei ristoranti, sui traghetti.
riuscito a salire su uno di questi,
intrufolandosi in un gruppo di turisti italiani. Approdato a Panjim, la capitale del piccolo stato di
Goa, capitò a Mapusa, in bus. Tra alte
fronde verdi e vecchie dimore di stile portoghese, Tariq capì di essere
arrivato a casa. Si sentiva ancora in
fuga ma il cielo terso lo proteggeva.
mormorio del mare Arabico e del colorato bazar lo faceva stare bene. Mercanzie
e spezie di ogni tipo lo invitavano ai banchetti sgangherati, a curiosare tra
stoffe e collanine di false perle.
sera, sul viottolo dritto che portava all’uscita del bazar, si specchiò su due perle nere di giovane donna. Era una
venditrice di angurie che portava
una cesta sulla testa, in
equilibrio perfetto.
si mise di fronte, a gambe divaricate. Mani sui fianchi. “Ti comprerei tutte le angurie ma non ho
nemmeno una rupia” le disse in marathi. Lei si fermò, scaricò la cesta dal capo
e gli tagliò una fetta enorme della più succosa anguria della sua esistenza. La
prima.
mangiò avidamente, sputando i semi sulla terra.
aspettarsi un ringraziamento lei se ne andò canticchiando, accennando qualche
passo di danza.
Parvati. E ora lo stava aspettando
sull’uscio della loro baracca. I primi, sonnacchiosi raggi di sole cominciavano
a fendere la notte morente. Parvati
aveva una piega di paura sulla bocca carnosa. A quell’ora Tariq tornava
sempre.
le ordinava di correre, alla svelta,
verso il mare. I suoi piccoli
piedi nudi affondavano sulla sabbia lasciando profondi solchi neri.
voce le si era spenta e le gambe affondate nella sabbia, fino alla
caviglia. Parvati pareva una statua
greca nella morsa di un presentimento già deciso.
chiamò ancora con un filo di voce,
nell’arsura di una delle più belle giornate di quell’estate
indiana. Alcune assi della barca dondolavano come surf al largo.
linea dell’orizzonte era nitida.
tramonto, il sole vi avrebbe appoggiato il mento.