LAS GALERAS, ultimo Paradiso di Santo Domingo
Decolliamo da Venezia e in dodici ore di volo siamo a Santo Domingo. Poi altre sei ore su un pulmino che attraversa fitte foreste di banane, incrocia pennuti, asini e persone che camminano senza fretta. Ci fermiamo in una specie di autogrill per una cena frugale a base di pollo alla griglia. Gli odori sono forti, decisamente forestieri.
Il merengue va a tutto volume.
E’ notte piena quando arriviamo a Las Galeras. L’umidità smorza il respiro ma il naso si sveglia a inebrianti profumi mentre gli occhi cedono al comando del fuso orario. Il ventilatore a pale sul soffitto concilia il legittimo sonno. La colazione del mattino seguente è a base di noce di cocco colta sull’albero davanti casa, latte bevuto direttamente dal guscio e banana fritta. La piscina ci chiama per un bagno fresco ma la curiosità di vedere cosa c’è fuori dal residence è forte. Aspettiamo la nostra guida, Alcide, trent’anni circa, sdentato e simpatico. Apre il cancello e subito siamo sulla strada principale dove fanno bella mostra un minimarket “Heladeria, pasta fresca”, la posta con l’unico telefono e l’ufficio cambio. Poi c’è la discoteca, aperta giorno e notte, una costruzione che a me pare ballerina con i tre pali di sostegno e la lamiera storta sul tetto, ma nessuno sembra curarsene. Asini che respirano al ritmo dei passi portano in groppa bambini festanti. “Platano por un peso? ” “Certo, grazie”. Ma quelle banane non si possono mangiare se non fritte e lo scopriamo assaggiandole. Alcide ride.
Uno scultore intaglia l’ebano inginocchiato su una gamba mentre sull’altra appoggia la statua appena abbozzata. E’ un giovane padre, torso nudo, capelli neri e ricci, pizzetto e baffi. Sorride al proprio bimbo sui due anni che gioca con un ramoscello. Ci saluta e ci invita nella sua casa. Un neonato dorme su un letto di foglie secche ed è avvolto da una rete antizanzare, a tratti bucata. A terra alcune pentole sporche. Compriamo una statua di ebano ancora fresca di vernice. Sulla strada sfreccia un “motoconcho”, l’unico mezzo di locomozione a motore che si noleggia in un attimo. Alcide fa un cenno con il braccio e la moto si ferma. Davanti si siede mio marito, per la prima volta alle prese con una motocross, dietro di lui io e dietro me Alcide. La sgommata iniziale non scoraggia la corsa che vede volare il mio berretto blu, vibrare le gambe al ritmo del motore e bollire le scarpe vicino al tubo di scappamento. Il vento tra i capelli è quasi gradevole fino al momento in cui la moto si ferma. E’ finita la benzina. “No problema” dice Alcide. Ferma una moto di passaggio, sale e se ne va. Ritorna con una bottiglia di birra piena di carburante. Riprendiamo la corsa fino ad un posto spettacolare: la “Boca del diablo”, una specie di vulcano con cavità gorgheggianti e fumanti. Una meraviglia della natura che Alcide ci mostra con orgoglio.
Il giorno dopo egli ci porta dalla sua gente, quella che vive dentro baracche colorate che interrompono i verdi delle risaie, delle piantagioni di tabacco e di banane. Sulla porta della prima casa che visitiamo appare una bambina di circa 14 anni con un neonato in braccio. “Buenos dias” ci dice sorridendoci. Intanto Alcide si allontana con il machete e ritorna subito dopo offrendoci mezza noce di cocco. Accarezza il neonato e dice che è suo figlio. Quella bambina è la madre.
Entriamo poi in una specie di palmeto diradato, camminando piano per non sprofondare nel fango. Davanti a noi si staglia una baracca senza porta né finestre. Sull’unica panchina un uomo a torso nudo è sdraiato, le mani dietro la nuca. Accanto a lui una donna molto grassa allatta un bambino. Più in là, seduta a gambe incrociate, una ragazzina allatta un altro neonato. A terra un nugolo di bambini ci guarda: nudi, giocano con il fango e ridono. Non ho il coraggio di fare foto.
Dentro alcune case vediamo pittori dipingere i quadri trionfanti di colori. Un odore piacevole di tempera fresca ci attira quando entriamo a casa di Maria, una thaitiana fuggita dal suo paese in rivolta. Il viso scuro contrasta nettamente con i colori forti dei quadri. Sulla strada principale incontriamo altri artisti che espongono le loro opere.
Dopo pochi giorni a Las Galeras siamo di casa. Il vero spirito dominicano, ospitale e semplice è la cosa che, insieme all’azzurro dell’oceano, ci ha più colpito. ” Buenos dias amigo, como estais?” ci sentiamo dire lungo il tratto di strada che porta alla spiaggia di borotalco. Qualche asino ancheggia sotto il peso delle gerle. E’ il solo disturbatore della pace assoluta, del silenzio naturale, del paradiso caraibico che eguaglia la perfezione. Che luogo strano Las Galeras! Mentre l’incessante repertorio del merengue ti toglie ogni pensiero logico, ti senti dire “A tus orden” (ai tuoi ordini) e capisci che fra tanta miseria ciò che abbonda è l’umanità. La gente è cordiale e sorridente a dispetto della povertà in cui vive. Viene naturale sedersi ai tavoli di una precaria trattoria, bere il “cocoloco”o la “piñacolada” e guardare tutto con occhi nuovi, in un tempo che si è fermato. Bambini che giocano con niente e anziani seduti, donne che hanno il sudore in fronte e la voglia di vivere che sprizza da ogni poro, occhi luminosi e generosità di cuore. Senza confini.
(n.d.r.) Da qualche anno è operativo l’aeroporto di Samanà che ha reso più agevole l’arrivo in questi luoghi, sicuramente tra i più belli al mondo.