NATALE – NONNI e NIPOTI a CONFRONTO
NATALE: NONNI E NIPOTI A CONFRONTO . Mio articolo pubblicato sul “Il Paese” – magazine del Medio Friuli, novembre 22
Inizi anni 60: Natale portava con sé neve alta e freddo pungente.
Un freddo che spifferava le ossa, stalattiti alle finestre e i geloni e il solo calore della legna sulla stufa.
Il suo fascino stava nel presepio.
Preparato con cura, iniziando dalla raccolta del muschio sui fossati, fino all’allestimento, con le statuine di gesso, comprate – una o due – ogni anno. Niente luci, ma un’atmosfera calda, di attesa di qualcosa di indefinito.
Niente Babbo Natale – personaggio sconosciuto – ma l’Ucelùt, l’Uccellino.
Prima, la notte tra il 12 e il 13 dicembre, era il turno di Santa Lucia, cieca, che portava qualche caramella e le immancabili calze di lana. Con l’immancabile delusione per le pentoline, sempre attese, ma, mai, arrivate.
Poi, la notte del 24 dicembre.
Nella capanna del presepe, mio padre posizionava, con delicatezza, Gesù, Maria e Giuseppe, davanti all’asinello e al bue. Mai mancava una preghiera, a mani giunte, davanti all’incanto di quel capolavoro realizzato con cura, con i ciocchi più strani, il pozzo con le gallinelle e le oche e le pecorelle dirette dal bambino che sarebbe nato.
La notte era magia pura, unita alla lotta contro il sonno. Avrei voluto non chiudere gli occhi per vedere quell’uccellino, che mi avrebbe lasciato qualcosa sulla finestra.
Un cratere bollente nella gola e un vulcano nello stomaco, al mattino, quando vedevo che, qualcosa, c’era: mandarini e un pacchetto di biscotti secchi. Leggendo “Milano” sulla confezione, sentivo il cuore volare: quell’uccellino veniva da Milano, per me!
Scendevo, di corsa, a dirlo a mia mamma e a mio papà, che mi sorridevano. Credo venissero contagiati dalla mia gioia.
Andare a messa era tradizione. Imbacuccati in sciarpe e passamontagna ad affrontare la chiesa ghiacciata.
La mia paura era incontrare compagni di scuola e il loro elenco di doni ricevuti.
Confesso: la naturale invidia mi sorgeva come fontana quando sentivo parlare di bambole, scarpe, libri.
Per me erano solo desideri, rimandati al Natale che sarebbe arrivato, in un altro anno non meglio identificato. Mi sentivo inadeguata e, sì, anche un po’ triste.
Anni 2020, giù di lì: Natale è panettoni a ottobre, luminarie e led, Babbi Natale foffosi nelle vetrine, regali, il più delle volte richiesti con il codice in vendita su Internet.
Aceto sulle ferite per molti, che vorrebbero passare, direttamente, all’otto gennaio.
Se il mio Natale era piccolino, oggi è appariscente, scenografico, gioioso solo per chi si stupisce ancora davanti alle luci intermittenti e agli occhi dei bambini, quelli piccoli, fino a due-tre anni.
Il presepio si vede solo nelle chiese, di rado nelle case. Io continuo a farlo, con alcune statuine – oggi introvabili – che comprava mio padre, per me.
Babbi Natale, spesso troppo magri e giovani per essere credibili, offrono promozioni e qualche caramella.
Quasi in disuso le bambole, perfino le mitiche Barbie, così i trattori e le macchinine. Natale è un pc della tal marca, il gioco di nuovissima generazione, soldi.
Più commerciale che di fede, forse non è il Natale a essere cambiato, bensì noi, presi dalla fretta e dagli acquisti, a volte di facciata.
Credo che i nostri nipoti, e noi, avremmo un gran bisogno di sentire il calore della semplicità, che appartiene a un passato, ma che può, ancora, indossare gli abiti del presente.
A noi la responsabilità e la volontà di renderlo possibile e lasciarci contagiare dalla sua magia.