INDIA mistica – New Delhi, Agra, Orchha, Khajuraho, VARANASI
India Mistica: 27 aprile-7 maggio 2019 11 giorni.
Un viaggio a due, con mia figlia Giada.
Si fa presto a dire viaggio, India, emozione.
Non sono parole. Non ha parole l’India ma solo battiti e colpi al cuore e alle coscienze.
Sono immensità da sfiorare con rispetto e gratitudine.
Ciò che provo é, prima di tutto, gratitudine.
Per aver avuto questa possibilità, per aver capito di essere piccolissima cosa, anzi, nessuno, davanti alle pire ardenti sul Gange silenzioso ma mai solo. E capisco che la vita è ovunque, nel fuoco e nell’acqua che tutto lava e trasforma, nel nulla che non è per sempre ma serve, che tutti siamo uguali, maraja e mendicante. Perché tutti siamo qui per qualcosa che non sempre comprendiamo. Qualcuno lo chiama karma, progetto, destino. Non ho risposte.
L’ India pone domande, ma lascia la libertà delle risposte.
Ma un saggio dice… Se non è la tua tazza di the… Non berlo. Ovvero… non giudicare.
Al ritorno, dopo 11 giorni in cui ho assaggiato, annusato, toccato l’India, così grande, spirituale, incredibile. L’ho percorsa in bus, aerei interni, treni, barca, risciò, tuk tuk… entrando e vivendo nei palazzi dei maraja, cogliendo ritmi e ispirazioni capaci di cambiarmi e arricchirmi. In India
si dice che, per conoscerla almeno un po’, bisognerebbe venirci sette volte, per raggiungere poi il settimo cielo. Ci può essere dunque un pezzo di India per ognuno? Con i suoi 29, diversissimi stati, 33mila dei, 104 parchi naturali, e un miliardo e mezzo di abitanti, madre India pazientemente aspetta. E sorride. Per me è la seconda volta e spero di tornarci.
Perchè si fa presto a dire India ma si dovrebbe dire DOVE si è stati in India.
Si può, per esempio, dire di aver visto l’Italia se si è stati a Roma, Milano, Firenze, Venezia per lo spazio di poche ore? Si può dire di aver visto l’Europa se si è stati in Francia per esempio? Certo che no e così è per l’India. Con i suoi 29 stati, è diversissima in ognuno. Uniti solo dall’amore per le tre mamme. Madre Terra, Madre che ha dato la vita, Madre India.
Già, si fa presto a dire India, ma essere al sud o al nord o nel suo cuore cambia prospettiva. E’ immensa l’ India, povera e ricca di un tutto che pervade anche chi non ha nulla di materiale. E’ sporca l’ India, si, per la nostra cultura fatta troppo spesso di apparenza. E’ fatta come una donna l’ India. Basta guardare la cartina. In alto la testa. Il collo, le braccia allargate, petto gonfio, il ventre, le gambe e i piedi nell’ Oceano. E’ simile all’ Italia. A. Nord le montagne, il deserto come la pianura al centro, il mare tutt’intorno. Ogni 100 km cambia tutto. Terra, lingua, cultura.
Ma cosa ha di diverso ancora l’India? L’ anima, la fede, il karma come guida di ogni vita, la cultura colorata e accogliente. La lentezza. Per fare 100 km ci vogliono anche tre ore, senza parlare del traffico delle città. Rumoroso, affollato, fatto di bici, risciò, tuk tuk, auto, bus, motorini, mucche sacre, dove l’orologio non può esistere.
Ha uomini e donne di grande cultura, che parlano molte più lingue di noi e che fanno dell’ accoglienza uno stile. A iniziare dal saluto il “NAMASTE‘” a mani giunte e l’ inchino in segno di riverenza. All’accettare la vita e ciò che essa dà, affidandosi a qualcuno che sta in alto in cui credere.
27 aprile 2019 – 28 aprile: Stati attraversati: Ariana, Rajastan, Uttar Pradesh, Mahdya Pradesh
Arrivo a New Delhi- compagnia Qatar – Venezia Doha – Doha New Delhi
Areoporto di New Delhi, la capitale. Mi rendo conto di essere straniera tra donne in burka e persone dalla pelle scura. Eppure nessuno me lo fa notare.
In bus fino a Jaipur: 260 km. 6 ore di percorrenza. 42°.
Da Delhi a Jalipur (Rajastan), quasi sei ore di terra assolata, baracche fatte di niente, moto con tre o più persone a bordo e senza alcuna sicurezza, discariche a cielo aperto. Traffico a suon di clakdon e frenate improvvise. Caldo da deserto a fine aprile.
E la sera, all’inaugurazione della fiera mondiale del turismo cui Abaco Viaggi T. O. nella persona di Giada Padovani, è invitato. C’è il mondo qui e pochissimi italiani, da contare sulle dita di una mano. Il mio basico inglese non mi agevola nella comunicazione, per fortuna ho l’inteprete.
29 e 30 aprile 2019: Full immersion nella fiera, tra i 400 padiglioni, a stringere la mano a fornitori, hotel, guide.
Immancabile la corsa in tuk tuk. Lasciata la Fiera alle ore 18.00, in bus fino a SAMODE,due ore, dove arriviamo alle ore 20.00. Passiamo per paesi incredibili su strade di pietra e case distratte da dove spuntano bambini dai sorrisi lunari.
“Ma dove siamo?” mi chiedo. a un tratto un viale di alberi secolari che si stagliano neri nel buio. Musica, fuochi, tamburi. Il portone si apre e… appare il Palazzo dell’Hotel Samode Palace illuminato. Cammelli, petali di fiori, fuochi d’artificio… una magia da togliere il fiato. In camera (308) sul letto c’è il vestito, il sari, che indosseremo per la cena di gala.
Il luogo è davvero magico, ideale per cambiare look e indossare il Sari
da regine indiane, con il sari autentico. Da mille e un notte!
1 maggio 2019:Da Samode ad Agra – Forte Rosso e Taj Mahal- 260 km. 6 ore di percorrenza 40°
Forte Rosso ad Agra
Il Taj Mahal, il più bel monumento del mondo, che letteralmente tradotto significa “il palazzo della corona” o “la corona del palazzo”, è il nome dato a una stupenda costruzione situata nella cittadina indiana di Agra, voluta dall’imperatore indiano Shah Jahan, per realizzare una delle promesse fatte alla moglie favorita quando era ancora in vita.
I lavori, che ebbero inizio nel 1632, si conclusero solo nel 1654 e impiegarono il lavoro di tantissimi artigiani, alcuni dei quali provenienti dall’Europa e addirittura uno dall’Italia di nome Geronimo Veroneo, che si servirono di diversi materiali provenienti da ogni parte dell’India e dell’Asia.
In totale si contano 28 diversi tipi di pietre preziose e semi preziose,
incastonate nel marmo bianco come motivo decorativo dell’intera
struttura. E’ una delle sette meraviglie del Mondo.
Ammirare il tramonto è stato momento davvero suggestivo.
Il Taj Mahal è una lacrima di marmo sospesa sulla guancia del tempo ( Tagore)
2 maggio 2019: Da Agra, in treno Indian Ralwais,(part ore 8.11) per Jhansi, 18 km da Orchha
In treno, a contatto con la gente delle stazioni, verso il sud.
Molti i sadu o monaci senza dimora, a piedi, con il sorriso sempre pronto.Vivono di carità.
3 maggio 2019: Ore 9.00: partenza per KHAJURAHO, arrivo ore 14.00. In strada miniere, fiumi, foreste di sparirphj, arbusti motjo. Mucche di tutti i colori e misure, oche e capretti. Miniere e legname. Trattori nuovi e orti ben coltivati. Immagini e gente e fumi e odori e fascino in movimento. Pranzo all’Hotel Lolit, il più bello del Madhya Pradesh. Visitiamo la stanza più bella con vista sui templi. A sera arrivo all’Hotel Radisson (stanza 207), davvero lussuosa con terrazza sulla piscina.
4 maggio 2019: KHAJURAHO e VARANASI– in volo interno e bus
Part. ore 5.45 per la visita ai 25 templi di KHAJURAHO in una giornata speciale per gli indù, propiziatoria della notte di luna nera che cade di sabato, giorno di Saturno, ricco di energia. Sagome coloratissime avanzano insieme al forte odore di incenso. Campanelle, offerte, devozione a Brama, Shiva e Visnù. Generosità ed energia nel già caldo che si annuncia vittorioso. Ascolto canti di giovani e di molto vecchi, in punta di pudore e rispetto. 25 templi di 1000 anni sono intatti. Miracolo del tempo e della devozione.
Oggi i templi di Khajuraho sono circondati da un paesaggio tipico di molti siti UNESCO, prato erboso con zone alberate, ma nel 1947, quando l’India ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna, l’area era semi desertica.
L’attuale parco all’inglese con prati, fiori e piante ornamentali è stato creato a scopi turistici, ma si allontana molto dal paesaggio originario della regione e dell’epoca in cui furono costruiti i templi. Non si hanno informazioni precise su come fosse il paesaggio nel X secolo, ma si sa che i templi ospitavano una grande comunità di sacerdoti e che a quei tempi i tipici giardini indiani erano composti di alberi, senza prati o fiori.
Partenza in volo x Varanasi: ore 15.15 arrivo ore 16.15 Bus x 40′.
VARANASI, tra i luoghi più affascinanti al mondo dove, a ogni angolo, si nasconde una sopresa,Gente a palate, tuc tuc, traffico roboante e caortico, motorini, plastica bruciata nelle narici, mucche appisolate.
Varanasi accoglie con la sua confusione, il suo formicolio, i clacson all’impazzata, i Tuk tuk, la voglia di arrivare al Ghat dove, alle 19.00 di ogni sera si tiene la cerimonia dell’AARI o benedizione del Gange. Uno spettacolo unico, dal sapore acre perchè vicino ardono le pire che bruciano i morti, da ammirare dalla barca.
5 maggio 2019: VARANASI (Uttar Pradesc) con 200 templi. Alba sul Gange già dalle 5.00 perchè il sole non aspetta
Apocalisse di contrasti, che, qui, convivono in apparente o forse vera armonia. Dove la dualità vita e morte combacia. Dove le pire sempre accese, giorno e notte, trasformano in cenere corpi avvolti in stoffe e fiori, accompagnati dal figlio maschio e dai parenti. Vita e morte, ricchezza e poverta assoluta, sfarzo e semplicità del nulla, rumore della gente e silenzio del fiume Gange che tutto lava, tutto perdona, e tutto trasforma. Dimostrando che nulla è per sempre, che le pire infuocate sono il simbolo della giustizia. Li sopra ci andiamo tutti, il sadu e il maraja, magari pure vicini.. India, un fiume di domande, con una sola possibile risposta… così è e tale resta. Non spetta ad alcuno giudicare né pretendere di cambiare, se non se stesso.
C’è chi dorme ovunque, senza nulla, chi si lava, chi lava i panni, chi chiede la carità, chi canta, chi cuoce, chi guarda, chi urina dove capita. Questo è il grande fiume, mentre le pire bruciano e bruciano, lasciando di un corpo solo un pugnetto di cenere, da affidare al Gange.
La sera, Tramonto sul Gange dall’hotel più esclusivo, in posizione mozzafiato, da cui vedere il fiume da ogni lato. Incredibile…Alba e tramonto sulla pelle di madre Ganga.. A respirare l’energia del mattino e la quiete della notte dall ultima e unica barca. Mentre le pire trasformano corpi in cenere. Mentre vita e morte parlano la stessa lingua. Mentre la madre India guarda e sorride.
Una serata indimenticabile, tra il garbo del ricevimento e la storia del luogo, lunga oltre duecento anni, sempre a guardare il fiume sacro, uno dei sette posti sacri per gli indù. Capace di azzerare ogni pensiero. E poi la notte all’Hotel Taji (stanza 224) a cercare di ripensare al pieno di visioni ed emozioni intense e uniche.
6 maggio 2019: Ultimo giorno … ultime immagini e poi l’aeroporto di New Delhi |
senza l’ultima emozione: lasciare il mio libro “Come angeli in vacanza”
in aeroporto, sperando che vada in viaggio anche lui, verso mete che non
saprei nemmeno immaginare.
Nel messaggio che ho scritto per l’anima errante che lo troverà ho indicato come contattarmi, se mai lo volesse. Chissà…
Certo è che anche una sola volta in India ti cambia, perché lei non ti lascia più.
Alla seconda, lo confermo. E’ così.
Rincorre i tuoi pensieri, ferma e incolla il tuoi ricordi al suo volto, alla sua voce, ai suoi sapori profumati di gelsomin, peperoncino e curry. Si infiltra nelle tue parole che la vorrebbero descrivere ma non ci riescono perché le emozioni spesso non vi trovano sbocco.
E rimane la voglia o l’esigenza di tornarci.
Non ha parole l’ India ma solo battiti e colpi al cuore e alle coscienze.
Ha colorate donne e altre dipinte di nero con fuori solo gli occhi, neri come castagne bruciate.
India…
Mistica, incredibile, madre, formicolante, coloratissima, accogliente,
devota, generosa. Rumorosa, odorosa, profumata, lussuosa, poverissima. Semplicemente immensa.
Più vecchia della storia.
E non te lo togli l’odore dell’India.
Fa parte di te,
della tua pelle,
di ogni fessura dei tuoi pensieri.
Hai riportato il corpo a casa
ma l’anima è appesa sulle pire di Varanasi,
attenta a non cadere
dentro fogne a cielo aperto,
li, a portata di naso e di piede.
Senti ancora il profumo delle spezie
e degli intoccabili,
quattro ossa messe in croce
e la terra come casa.
Guardingo,
in un tutto sconosciuto
e apparentemente senza spina dorsale.
Incredibile,
come il suo colorato e rumoroso mondo.
Ma in braccio a lei, a Madre India,
mentre bevi il suo latte che sa di miseria,
cenere e rassegnati sorrisi,
di opulenza gonfiata da soldi e potere,
tu la senti vibrare
in tutta la sua magnificenza.
Sei una delle sue donne, colorate
o dipinte di nero,
con fuori solo due occhi neri
come castagne bruciate.
Più vecchie della storia.
Dopo aver girato in India, in bus, aereo, tuk tuk, risciò, bicirisciò, dopo essere entrata nei palazzi dei Maraja, averci dormito, mangiato i cibi dei migliori chef…beh, posso dire di averci lasciato un pezzo di cuore. A Varanasi, poi, ho annusato l’apoteosi dell’umanità.
https://www.abacoviaggi.com/tour/939-india-mistica-dal-taj-mahal-a-varanasi
Racconto IL PESCATORE DI TAMBURI
IL PESCATORE DI TAMBURI
A gambe divaricate sulla barca di legno, Yamir ammirava la luna piena di Goa. Sembrava una medaglia da generale sul suo petto. I flutti suonavano l’arpa nel mare Arabico, brizzolato e calmo. Come ogni notte, egli buttò le reti nel brodo nerastro, con i muscoli vigili e i pettorali scolpiti. Solo dopo si dedicò alla paziente attesa della pesca, con le dita intrecciate dietro la nuca e la sua famiglia dentro ogni goccia di saliva.
Era tranquillo. Sapeva che sua moglie Inay, con i cinque figli, già dormiva nella casupola quadrata, fatta di pali di cocco e fronde di palma.
L’indomani mattina lo avrebbe accolto con un abbraccio, ancor prima di verificare se il pescato fosse stato abbondante. La certezza di essere molto amato gli distese le pieghe del viso ambrato, come un’invisibile carezza. Annusò il profumo della sua sposa, buono e pulito.
Una pioggerellina fuori stagione ricamava una coltre d’aria umida. La spiaggia di Agonda sonnecchiava.
Yamir cambiava spesso tratto di Oceano Indiano per pescare ma, quella notte, aveva scelto Agonda. Era poco distante dalla sua baracca e gli piaceva seguirne il profilo anche di giorno, sdraiato sulle dune, all’ombra delle camicie ad asciugare.
Quella stellata notte, però, le creature marine si negavano.
Il silenzio era potente e le reti immobili. Sui profondi solchi della faccia di Yamir s’intagliò, improvvisa, una tavolozza funebre. I muscoli, allertati, si fecero di pietra.
Rumori sinistri anticipavano il dondolio sempre più forte del piccolo scafo. Yamir si alzò veloce, in precario equilibrio. Voci lontane formulavano parole che non riusciva a comprendere. Il terrore gli pugnalò il petto.
Gli occhi erano fessure feline. Un’onda più decisa delle altre, lo fece traballare. Un lampo, e Yamir fu in balìa di un cavallo imbizzarrito senza redini. L’acqua gelida gli penetrò le ossa. La ricchezza di una vita, la sua imbarcazione, stava diventando una carcassa alla deriva. I pezzi legnosi erano costole di animale preistorico.
I pochi pesci duellavano nelle reti d’argento, boccheggiando libertà. La benzina bruciata evaporava, disegnando una stella rossa col sangue di Yamir, ormai inghiottito dal gelido catino nero.
Nuotando con le ultime forze, tossendo anelli di fumo e salsedine, vide il film della sua vita alla moviola, mentre toccava il fondo. La canottiera, fradicia e logora, era lenzuolo sul suo corpo abbandonato. Le ciglia incollate sembravano dita in preghiera.
Il buio era lo stesso della notte in cui Yamir stava tornando allo slum di Bombay, con il giovane padre. Latrati furiosi annunciavano l’arrivo di lupi ingordi di uomini, animali, bambini.
Nel viottolo scuro, lo aveva prontamente sollevato e fatto sedere sulle spalle. Tolta la camicia, l’aveva arrotolata e poi lanciata il più lontano possibile, facendo scattare i cani che si azzannavano nella frenesia di farla a pezzi, tra il fetore di carne rancida e occhi gialli, a falce.
«Adesso, scappa!» gli gridò, abbassandosi di scatto. E Yamir corse a perdifiato fino alla capanna di stracci e plastica. Nelle orecchie, l’eco dell’urlo del padre e il latrare sempre più feroce di cagnoni assassini. Sui capelli, i fiocchi radi e grigi di una neve mai vista, si posavano distratti. Yamir sbattè la porta di carta velina e si tuffò nel seno sudato della madre, sotto gli occhioni sorpresi dei fratelli.
La coltre bianca coprì lo slum. Gelida come la morte, sferzava le fessure delle esili pareti e spegneva la stufa a kerosene. Glaciale come l’addio che, da lì a poco, Yamir dovette dare alla fatiscente periferia, a ciò che rimaneva della sua infanzia. Con l’unico kurta addosso e poche rupie nel pugno, se ne andò correndo, senza girarsi. Un nuovo domani lo aspettava, ma altrove.
Yamir era bravo a saltare, a fare piroette da circo, a suonare gli strumenti che suo nonno gli costruiva da bambino. Per questo si accodò a un gruppo di venditori di tamburi. Da loro imparò a stringerli sotto le ascelle e a scatenarli in concerti improvvisati. Ovunque, sui marciapiedi, nei ristoranti, sui traghetti.
Una mattina, salì senza biglietto su uno di questi, intrufolandosi in un gruppo di turisti italiani. Per puro caso capitò ad Agonda. Sotto un cielo terso, tra alte fronde verdi e vecchie dimore in stile portoghese, Yamir capì di essere arrivato a casa.
Il sussurro marino e il colorato bazar lo facevano stare bene. Mercanzie e spezie di ogni tipo lo invitavano a curiosare, tra stoffe e collanine di falsi coralli, sui banchetti sgangherati.
Sotto sera, sulla viuzza che portava all’uscita del mercato, si specchiò su due perle nere di giovane donna. Era una venditrice di cocomeri e ne portava una cesta piena sulla testa, tenendola in perfetta stabilità.
Le si mise di fronte, con le mani sui fianchi. «Ti comprerei tutto ciò che hai ma non ho nemmeno una rupia,» le disse in uno stentato malayamal. Lei si fermò, tolse la gerla dal capo e gli offrì una fetta enorme della più succosa anguria della sua esistenza. La mangiò avidamente, sputando i semi a terra.
Senza aspettarsi un ringraziamento, lei se ne andò, camminando a passi di danza.
Era Inay che, ora, lo stava aspettando sull’uscio del loro alloggio. I primi, sonnacchiosi raggi, cominciavano a fendere l’oscurità morente. Inay aveva una piega di paura sulla bocca carnosa. A quell’ora Yamir tornava sempre.
L’istinto le ordinò di precipitarsi verso la tavola azzurra. I suoi piccoli piedi nudi affondavano nella sabbia fino alle caviglie, lasciando eleganti orme dorate.
«Yamiiiir!» urlò. «Dove sei Yamiiiir?»
Con lo sguardo ingessato, Inay pareva una statua greca nella morsa di un presentimento che faceva strada alla dolorosa certezza.
«Yamir!» chiamò ancora e ancora, fino a perdere l’ultimo filo di voce. Indifferente, l’arsura di una delle più belle giornate di quell’estate indiana regnava sovrana. Alcune assi dondolavano al largo, quiete. La linea dell’orizzonte era nitida.
Al tramonto, il sole vi avrebbe appoggiato il mento.
fosca pertoldi
leggere i tuoi post, i tuoi commenti …ci fanno viaggiare oltre che con il pensiero anche con il cuore….grazie